“Medicine At Midnight” è il titolo del decimo album da studio dei FOO FIGHTERS, pubblicato il 5 febbraio scorso.
Sarebbe davvero un delitto definire questo come un brutto album, ma onestamente non lo classificherei tra i migliori in assoluto della band.
“Medicine At Midnight” sembra partire con il piede giusto, dritto come un treno con il primo esplosivo brano “Making a Fire”, uno di quelli che ti rimangono dentro al punto da averlo in testa già dalla mattina quando ti svegli, una cosa che succede spesso quando se sei un fan affezionato.
Un felice incontro tra la Tamla-Motown e David Bowie metà anni 70 o primi anni 80 con una lontana strizzatina d’occhio al prog dei “Kansas”, davvero pazzesco da eseguire dal vivo, con coro di pubblico a seguito.
Ma poi l’incantesimo si interrompe e siamo di nuovo sulla terra con “Shame Shame”, decisamente il brano più singolare di tutto l’album definito “quello diverso e che farà discutere”, come asserisce lo stesso Dave Grohl.
Il ritmo semplice, statico e cupo ma che ancora ci ricorda le sonorità di svariati album di David Bowie.
In effetti David Bowie è l’artista di riferimento più citato riguardo a questo lavoro, in particolare si parla del suo mitico “Let’s Dance” del 1983, un album a cui Dave Grohl sembra essere particolarmente legato e che ha influenzato parte della sua carriera. Guarda caso proprio quell’album a suo tempo, era stato una sperimentazione per David Bowie, diverso da tutti gli altri, a tutt’oggi considerato il suo progetto più, cosiddetto, “commerciale”. E’ un fatto che l’unica guest star di “Medicine At Midnight” sia il percussionista jazz/fusion Omar Hakim, tra i batteristi appunto di “Let’s Dance”.
Come tutti sappiamo anche il video che è stato abbinato a “Shame Shame”, diretto ed opera prima della fotografa Paola Kudacki , propone immagini che poco hanno a che vedere con i video passati della band, completamente assente, ma che vede soltanto Grohl e la sensuale attrice e ballerina Sofia Boutella, come protagonisti.
E’ scomparsa quella loro innata ironia nell’affrontare anche tematiche di impegno, per lasciare il posto a qualcosa che invece ricorda video vicini a quelli di gruppi black metal.
In effetti tutti i video dei singoli estratti rappresentano tristezza, risentimento e disperazione, quasi in contrasto con quanto afferma Grohl, che dice di aver fatto un “party album”, dove l’ascoltatore non può fare a meno di ballare.
Allo stesso tempo è anche vero che la caratteristica principale di tutto questo album, sono le varie influenze musicali ed i gusti di ciascuno dei componenti del gruppo. Tutto si direbbe fuorchè essere un brano dei FOO FIGHTERS ma forse che ci rimanda più agli ABBA, la traccia successiva, “Cloudspotter” dove le voci femminili sono le padrone. Un peccato davvero. Sarebbe bastato lasciarlo esclusivamente a Taylor Hawkins, ottima voce rock, oltre essere ormai mitico batterista, che in questo album canta soltanto nei cori.
Nei brani successivi la qualità procede come un’onda di alti e bassi continui.
“Waiting On A War” brano destinato a rimanere uno dei più carismatici della storia del gruppo, è decisamente il più toccante sia per testo che musica. Il ritmo accellera, come in una corsa verso lo struggente finale che sfocia in un vero e proprio grido di dolore e di speranza. “Io voglio di più” urla Grohl, facendoci capire che lui non si arrende, come citava chiaramente ne “The Pretender” qualche album addietro.
“Medicine a Midnight” è forse il brano più riuscito in tutte le sue parti, ottima la sua evoluzione e persino la presenza del coro, non stona affatto nel suo contesto. Molto coinvolgente l’assolo di elettrica di Chris Shiflett, ed è un omaggio che il chitarrista ha voluto fare al suo idolo indiscusso Steven Ray Vaughan, del resto Vaughan figura tra le guest star di “Let’s Dance”, così il circolo si chiude.
Poi il disco sembra scendere di livello con “No Son Of Mine”, inserito come se volessero ribadire la loro identità rock, ma che propone un ritmo ed un riff così scontati che quasi annoia, seguito dal confusionario “Holding Poison” che non ha ne capo, ne coda e davvero non chiaro da classificare. Ricorda molto alcuni gruppi new wave degli anni 80, ma si avvicina al glam rock degli anni 70 nella sua parte centrale.
Per fortuna c’è “Cheasing Birds”, a rimetterci in riga.
Bellissimo, come una delle ballate più toccanti dei BEATLES o di John Lennon solo o persino degli WINGS, di Paul McCartney. In un passaggio Grohl canta : “My heart is six feet underground/Il mio cuore è sei piedi sotto terra”, frase che ricorda i versi di “Six Feet Under” di Billie Eilish , la giovane cantante, grande rivelazione di questi ultimi anni, che tanto affascina Grohl e le sue figlie. Insomma, un gioiello di oro vero in un mare di bigiotteria.
L’album si conclude con “Love Dies Young” che Grohl vorrebbe estrarre come quarto singolo e di cui si pente non aver utilizzato anche come il titolo, è decisamente collocabile come colonna sonora per un film cult anni 80, anche se nella prima parte potrebbe passare per un brano dei QUEEN o di Elton John anni 70.
Come ci racconta Dave Grohl l’album non ha nessuna pre-produzione, come avveniva invece per i precedenti, ma piuttosto nasce giorno dopo giorno direttamente da jam session e precedenti demo.
Qualcosa funzionava meglio di altre e decidevano seduta stante di mantenerla, ed utilizzarla poi in seguito in qualcuna delle canzoni in lavorazione o in altre che forse non vedranno mai la luce.
Per fare questo, hanno affittato una villa ad Encino, Los Angeles, dove Dave Grohl aveva vissuto per un breve periodo con la sua famiglia dieci anni fa.
La villa però pare fosse infestata da fantasmi o qualcosa del genere, cosa mai del tutto chiarita.
Da qui invece un vero e proprio mito sulla registrazione dell’album.
Qualcuno durante la notte si divertiva a manomettere strumentazione e scordare le chitarre.
Alla fine si ha quasi fretta di finire tutto nel più breve tempo possibile.
Non saprei dire quanto questo incida sulla riuscita del disco, ma traspare una certa mancanza di ricerca più approfondita, soprattutto nella sovrapposizione dei vari strumenti, che trovavamo invece negli altri album.
La stanze della villa sono abbastanza grandi e ciascuna possiede particolari vibrazioni, una cosa che evidentemente Grohl aveva notato durante la sua permanenza.
Si è dunque registrato nella stanza madre, nei bagni, sulle scale, ovunque, pur di ottenere quel dato suono o riverbero.
Si pensava che soltanto “Concrete and Gold” , pubblicato nel 2017, rimanesse il loro esperimento per avvicinarsi più alla pop-music, ma in questo album la direzione verso questo genere di musica, quasi si accentua.
Non tutti apriranno le braccia per accogliere o si arrenderanno alla nuova tendenza groove funk.
Molti rimpiangono le sonorità di un tempo, di una rock band, post punk, molto “maschile” e vedono il coro femminile, anche se di tutto rispetto, ancora come una vera e propria stonatura.
Naturalmente Grohl ha inserito nel coro anche la figlia primogenita Violet. Una teenager, ma con grandi capacità canore e da cui non possiamo non aspettarci che grandi cose per il futuro.
Tra qualche anno Grohl deciderà di far partecipare la secondogenita Harper, magari aggiungendo una doppia batteria insieme a quella di Hawkins (?).
Se anni fa qualcuno avesse chiesto a Dave Grohl in qualche intervista cosa pensasse della eventualità di inserire una guest star femminile od un coro di ragazze nel prossimo album, è molto probabile che questi gli avrebbe riso in faccia dicendogli qualcosa come : “Hey are you fucking kidding man??? We are a rock band!” (“Hey amico ma vuoi fottutamente scherzare??? Noi siamo una rock band!”) ed è proprio vero che nel tempo le persone cambiano, così come le loro idee e visione del mondo.
E’ comunque bello vedere come questo ex giovane ribelle, sia diventato così versatile e disponibile, al punto da lavorare con molti musicisti anche appartenenti a generi totalmente diversi dal suo, per puro amore per la musica, per sperimentazione e condivisione, così come tutti dovrebbero essere.
Non è da escludere augurarsi che la band faccia un passo indietro per il prossimo album, con una produzione diversa da quella di Greg Kurstin. Nulla da eccepire al formidabile musicista ed abile “uomo di musica” come pochi ma ahimè, molto più vicino al jazz e che poco ha a che vedere con l’alternative rock.
In conclusione, “Medicine at Midnight” è un bel disco, ma è come un aereo che non riesce a decollare bene e a cui mancano alcuni pezzi di ricambio.
Dodici brani si potevano azzardare, ma Grohl ribadisce che pur avendo dell’altro materiale a disposizione, l’album è concepito per ascoltarsi più in fretta e condensato in soli 9 brani.
Mentre Taylor Hawkins fa intendere che c’è molto ancora da utilizzare, forse una quantità pari a farne un altro album.
Un giorno chissà in una edizione speciale o in un nuovo progetto, ci faranno ascoltare, magari ci troviamo qualche gemma nascosta, magari …