Bologna, 9 settembre 2016
Eccomi qua, sono a Bologna alla mostra di “David Bowie Is” a tre anni dall’inaugurazione avvenuta al Victoria & Albert Museum di Londra, nel marzo del 2013. A quel tempo David Bowie era ancora in vita e stava suggellando con questo evento, il suo grande ritorno dopo dieci anni di assenza dalle scene.
Anzitutto prima di entrare rifletto per un attimo sul fatto che David Bowie ci abbia lasciati pochi mesi fa e che a questo punto la mostra andrebbe in qualche modo aggiornata, vengo però subito sorpresa dal costume cult dell’Aladdin Sane Tour del 1973 disegnato dallo stilista giapponese Kasai Yamamoto, per intenderci quello in pelle nera lucida, a righe bianche.
Ed è proprio questo che determina a mio avviso il vero scopo di tutta la mostra: Bowie non è la rockstar che ha scritto musica per 50 anni, passando da un genere ad un altro, praticamente fino agli ultimi giorni della sua intensa vita, proprio no, questa immagine gli stava alquanto stretta. Quindi se siete qui per la musica, vi sbagliate di grosso: Bowie è un artista a tutto tondo, è un fenomeno di cultura ed istrione come pochi ed un incantatore di folle.
La prime sale della mostra sono composte, in ordine cronologico: i primi anni di vita e di carriera di un giovane londinese della Swinging London degli anni 60, anche se già allora l’influenza della beat-generation si fa alquanto marginale.
Dopo anni di gavetta ecco l’esplosione, l’inizio della sua ascesa con il singolo “Space Oddity” nel 1969.
Poi il salto temporale del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno e quindi dal 1969 ci ritroviamo catapultati in piena epoca Ziggy Stardust nel 1972/73. Due anni di buio nel mezzo? No, solo ben pochi riferimenti anche del corso del resto della mostra, a due album che reputo tra i migliori : “The Man Who Sold The World” e “Hunky Dory”.
Sono alquanto perplessa ma entro in una sala successiva dove inizia la vera confusione, tanto da non saper cosa guardare prima.
Le epoche si intrecciano, si confondono. Non sai dove inizia Ziggy o Aladdin e dove finisce il Duca Bianco, e naturalmente non può mancare il periodo della sua vera ultima rinascita artistico-culturale negli anni 90, con gli album “Outside” e “Earthling”.
Rimango rapita dalla sala riguardante il periodo berlinese ed i tre quadri dipinti da sua mano, due dei quali sono i ritratti di Iggy Pop, che da sempre trovo affascinanti, dai quali non riesco a staccare gli occhi.
Rivivo la mia giovinezza osservando quei costumi, purtroppo alcuni dei quali sbiaditi dai vari lavaggi, quei video che ho visionato mille volte. Qualcosa che sembrava lontana, che ho sempre visto attraverso libri o documentari e che ora potrei per assurdo quasi toccare con mano.
E’ davvero incredibile l’energia che ancora trasmette questo piccolo, grande uomo, dico piccolo poiché la sua minuta statura sconvolge ancora di più nei confronti della sua immensa fama.
Nella sala dedicata alla visione dei suoi ruoli in diversi film, troviamo una selezione molto ristretta di quella di tutta la sua più ampia e versatile filmografia.
Mi rendo sempre di più conto che la mostra è molto incentrata sul personaggio Bowie ed il suo trasformismo, tanto che alla fine è carente delle testimonianze filmate dei grandi musicisti, intellettuali ed artisti che lo hanno sempre circondato.
Ragion per cui l’intervista di Kasai Yamamoto risulta essere di gran lunga più lunga dei pochi minuti dedicati a Tony Visconti, il produttore discografico con il quale Bowie ha lavorato su moltissimi dischi tra cui anche la leggendaria cosiddetta “Trilogia Berlinese” fino a praticamente gli ultimi due album, o di quella del grafico londinese Jonathan Barnbrook, che è responsabile dell’art-work delle copertine di “The Next Day” e di “Blackstar”, ma che in realtà ha collaborato con Bowie dal 2002.
I manoscritti ed i disegni sono all’essenziale, poiché era sua abitudine disegnare tutti i suoi futuri progetti prima di realizzarli, nonché prendere appunti quasi giornalmente poiché tutto per lui era fonte di ispirazione, ma era praticamente impossibile esporre tutto.
Alla fine della mostra, ti immergi nel tuo vecchio sogno e non puoi fare a meno di cantare. David Bowie è in concerto dal 1973 con Ziggy fino al 2004 con l’ultimo tour, Reality Tour. Scorrono immagini e musica, sulle pareti a schermi trasparenti, dove si intravedono ancora altri costumi, di questa sala con salottino centrale dove i visitatori possono rilassarsi.
Il sogno continua, passa di mano in mano, di generazione in generazione me lo confermano quei genitori che osservo portare a mano i loro figlioletti e che stanno ballando sul ritmo di “Jean Genie”.
Dopotutto la musica è la sola cosa che sempre sopravvive.